Roma, 04 Giugno 2019
Una recente sentenza del Tribunale di Roma, la n. 2631 del 05/02//2019, delinea i contorni del divieto, disposto dal 1° comma dell’art. 2467 del c.c. in capo alle società di capitali, di dare seguito alla richiesta dei soci di restituzione dei finanziamenti erogati alla società negli anni, sancendo che la società non può negarlo limitandosi ad opporre dati econimico-reddituali che evidenzino come l’attività aziendale sia stata svolta, per alcuni anni, in perdita. La Società debitrice deve, invece, dimostrare l’esistenza di un rischio di insolvenza, rischio che verrebbe accentuato sensibilmente dal rimborso dei finanziamenti erogati negli anni precedenti dai Soci.
Ai sensi dell’art. 2467 c.c., si ricorda, il rimborso dei finanziamenti dei Soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito (comma 1). A tali fini, s’intendono finanziamenti dei Soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento(comma 2).
In tale scenario, la “postergazione legale”prevale sul regolamento negoziale tra società ed i suoi Soci, esigendo il rispetto della preferenza dei terzi, con la conseguenza che la soddisfazione degli altri creditori opera come una condizione sospensiva del diritto al rimborso, idonea a produrre l’effetto di prorogare ex legela scadenza del finanziamento – rispetto a quella eventualmente concordata tra società e Socio – sino al momento del suo avveramento, “congelando” di fatto l’esigibilità del credito del Socio che deve reputarsi sospesa sino alla soddisfazione degli altri creditori.
A ben vedere, l’individuazione dei parametri tracciati dal 2° comma dell’art. 2476 è spesso incerta ed opinabile, caratterizzata da un’elevata dose di discrezionalità.
In ordine al primo parametro, rappresentato dall’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, c’è da evidenziare come non sia tecnicamente e/o aziendalisticamente possibile predefinire, in termini oggettivi ed assoluti, quale sia il livello di indebitamento massimo sopportabile da una società, che dovrebbe invece essere accertato caso per caso, in relazione alla tipologia del business, alla dimensione, posizione sul mercato, all’organizzazione, rigidità del mercato, ciclo di vita del prodotto/servizio, etc… .
Va da sé che, in ogni caso, in via generale è possibile osservare come l’indebitamento sia certamente eccessivo quando è tale da porre concretamente la società a rischio elevato di insolvenza, che non sarebbe solo possibile ma anche molto probabile.
Non è banale nemmeno l’individuazione del secondo parametro, che fa riferimento alla situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. Il concetto di “ragionevolezza” espresso dalla norma la connota di un’eccessiva dose di soggettività, mutandone l’esito finale a seconda della prospettiva: se dal punto di vista del Socio (che tenderà a reputare “ragionevole” il rimborso del finanziamento in quanto effettuato in assenza di criticità aziendali) oppure se considerato dal punto di vista del creditore sociale (che, invece, tenderà a reputare “ragionevole” un conferimento, lasciando pertanto il finanziamento in società). Si è, quindi, proposto di fondare l’interpretazione del canone di “ragionevolezza” sulla base di un confronto con condotte di finanziamento socialmente tipiche ovvero guardando alle prassi abitualmente vigenti sul mercato del credito, per stabilire se un creditore indipendente avrebbe erogato il finanziamento secondo i medesimi termini e alle stesse condizioni riconosciute alla società dal socio (cfr. Tribunale di Milano, sentenza n. 1658 del 6/2/2015).
Una parte della dottrina, invece, ha proposto una lettura unitaria delle indicazioni dell’art. 2476 comma 2 c.c., secondo cui il presupposto della postergazione sarebbe comunque la situazione di crisi che ponga la società a rischio di insolvenza. Il finanziamento del socio, cioè, deve essere postergato quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, nel momento in cui venne concesso, era altamente probabile che la società, rimborsandolo, non sarebbe stata in grado di soddisfare regolarmente gli altri creditori (cfr. Tribunale di Milano, sent. 11243 del 13/10/2016 e sent. 964 del 25/01/2016).
Tornando alla recente sentenza n. 2631/2019, l’amministratore della società condannata, respingeva la richiesta di rimborso senza dare evidenza di alcuna situazione di crisi al momento in cui i finanziamenti erano stati erogati e, poi, chiesti a rimborso, limitandosi a sottolineare come alcuni esercizi sociali furono chiusi in perdita. Tali dati, osserva il Tribunale di Roma, sono indicativi del fatto che l’attività aziendale sia stata svolta, per alcuni periodi, in perdita, ma non sono in alcun modo indice di un rischio di insolvenza, che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino come il debitore non sia più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Per concludere, nella fattispecie sottoposta al vaglio del Tribunale di Roma, i Giudici precisano che in assenza di tale prova (stato di insolvenza della società), non operando la regola della postergazione, la Società deve essere condannata al rimborso, in favore dei suoi Soci, del finanziamento erogato negli anni, oltre gli interessi al saggio legale, dalla data della domanda e fino all’effettivo soddisfo.