Overview sulla sentenza di Cassazione n. 14031 del 21/05/2024: non è “abuso del diritto” ex art. 10-bis della Legge n. 212/2000, la cessione totalitaria di quote rispetto alla cessione d’azienda.

Roma, 23 maggio 2024

Oramai è cristallizzato nelle sentenze della suprema corte di Cassazione: la cessione totalitaria di quote non è una cessione di azienda e non può quindi essere in tal senso riqualificata da parte dell’A.d.E.

La sentenza n. 14031 depositata il 21 maggio 2024 – che va ad aggiungersi alle tante dell’ultimo anno: Cassazione n. 10243/2024; Cassazione n. 7613/2024; Cassazione n. 7470/2024; Cassazione n. 7495/2024; Cassazione n. 34917/2023 –   ribadisce che non è più percorribile l’indirizzo interpretativo secondo il quale l’A.d.E. potrebbe disconoscere, in ottica tributaria, gli effetti civilistici di atti o negozi posti in essere dalle parti, ove essi non siano conformi alla “causa reale” dell’operazione economica realizzata, in applicazione del principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulle forma”.

La sentenza n. 14031/2024, probabilmente ancor più delle precedenti di quest’anno, ha il pregio di porre in evidenza i rapporti tra la disciplina dell’abuso del diritto (art. 10-bis della L. 212/2000) e quella sull’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro (art. 20 del DPR 131/86).

Dopo aver individuato le significative differenze giuridiche tra uno share deal ed un asset deal, la Cassazione rileva che, a seguito della riforma (in materia di imposta di registro operata dall’art. 1 comma 87 della L. 205/2017 e resa retroattiva dall’art. 1 comma 1084 della L. 145/2018) l’art. 20 del DPR 131/86 impone di interpretare l’atto portato alla registrazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, guardando solo al suo contenuto intrinseco, non potendo fare riferimento ad atti collegati o elementi extratestuali.

Questa disposizione non può più essere usata in funzione “antielusiva”, come ha in più occasioni confermato non solo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 34955/2023; Cassazione n. 34917/2023) ma anche, a più riprese la Corte Costituzionale (Corte Costituzionale nn. 158/2020 e 39/2021).

Ciò non significa – spiegano però i giudici di legittimità – che l’A.d.E. “….. debba accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ….”, come dimostra il fatto che l’art. 20 stesso richieda di applicare l’imposta di registro andando oltre al titolo e alla “forma apparente” dell’atto.

L’attività riqualificatoria ammessa dal novellato art. 20, però, secondo i superiori Giudici non può “……. travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, mediante l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta dai contraenti e comportante, per di più, effetti giuridici differenti, in ragione – per quanto è dato leggere nel controricorso dell’Agenzia delle Entrate – di una assai opinabile equivalenza economica tra la cessione totalitaria di quote societarie e la cessione di azienda e della circostanza che si verifichi la situazione in cui proprio l’indebito risparmio di imposta costituisca l’effetto realmente voluto dalle parti contraenti.

Ad esempio, non è ammissibile che, come avvenuto nella fattispecie oggetto di contenzioso, si applichi il trattamento tributario previsto per una fattispecie (la cessione di azienda) che comporta anche effetti giuridici diversi da quelli stipulati dalle parti (cessione di partecipazioni), basandosi – per l’appunto – sulla “ ….. assai opinabile equivalenza economica tra la cessione totalitaria di quote societarie e la cessione di azienda”.

In questa ottica non hanno quindi rilievo le “…. ragioni economiche e commerciali che hanno determinato la cessione oggetto di causa …..” rinvenute dal giudice del merito nell’interesse dell’alienante a “….. monetizzate il valore complessivo dei beni aziendali …..”, posto che “….. i contraenti hanno scelto di adottare, anche in vista di un risparmio fiscale, un tipo negoziale in luogo di un altro, diverso anche negli effetti giuridici”.

Nel contesto delineato dall’art. 20 del DPR 131/86 – proseguono i Giudici nella loro sentenza n. 14031/2024 – il soggetto chiamato ad applicare l’imposta di registro non deve “….. ricercare un presunto effetto economico dell’atto, tanto più se, come nel caso di specie, tale effetto è proprio quello tipico del negozio prescelto (trasferimento della proprietà di quote contro prezzo), in assenza di clausole che ne abbiano modificato la tipicità codicistica”.

Nella fattispecie, invece, l’A.d.E. si è limitata ad affermare che le parti contraenti erano mosse dal comune intento elusivo di “….. dissimulare l’avvenuta cessione d’azienda per la quale è dovuta l’imposta proporzionale di registro, in luogo di quella assolta in misura fissa sull’atto di vendita di quote”. Ma tale considerazione dell’A.d.E. si pone del tutto al di fuori dei confini dell’art. 20 del DPR 131/86, posto che non viene sollevata alcuna valutazione sugli elementi oggettivi e/o soggettivi dell’atto, bensì solo sul presupposto della esistenza di una presunta fattispecie diversa, soggetta ad imposizione – ovviamente – più elevata.

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