Roma, 17 aprile 2024
L’art. 20 del DPR 131/86 (Interpretazione degli atti), che esclude la possibilità di riqualificare l’atto portato alla registrazione sulla base di elementi extratestuali o di atti collegati, impedisce anche di riqualificare in “cessione d’azienda” l’atto con il quale si perfeziona la cessione totalitaria della partecipazione afferente la società di capitali proprietaria dell’azienda stessa, e ciò in quanto tale operazione ermeneutica travalica gli elementi desumibili dall’atto medesimo, fondandosi “…. su una visione di insieme formata dall’esame di elementi extratestuali e di altri atti collegati a quello assoggettato a tassazione”.
Questo principio di diritto – sempre più cristallizzato nella giurisprudenza anche di legittimità – lo ribadisce la Cassazione nella sentenza n. 10243 depositata ieri, 16.04.2024.
IL FATTO. L’A.d.E. – soccombente nel secondo grado di giudizio – propone ricorso per la cassazione della sentenza n. 1848/2021 con la quale la Corte di Giustizia Tributaria di II grado di Roma ha ritenuto illegittimo l’avviso di liquidazione per la richiesta della maggiore imposta proporzionale di registro (3%), su un atto notarile del 2016 con il quale la società “X” cedeva alla “Y”, per il corrispettivo di euro 9,9 kk, il 100% delle quote da essa possedute nella “Z” S.r.l..
L’A.d.E., previa riqualificazione dell’atto stesso da “cessione di partecipazione” in “cessione d’azienda”, ex art. 20 del D.P.R. n. 131/86 notificava alla società acquirente avviso di liquidazione per il pagamento dell’imposta di registro proporzionale del 3% (rispetto a quella versata nella misura fissa di euro 200), oltre sanzioni (30%) ed interessi.
In particolare ed in estrema sintesi – si legge nella sentenza della Cassazione – non è condivisibile l’affermazione dell’Ufficio, secondo cui la riqualificazione della cessione totalitaria di partecipazioni in cessione d’azienda non implicherebbe un riferimento a elementi estrinseci all’atto portato alla registrazione, in quanto dalle due operazioni emergerebbero risultati identici.
Secondo i Giudici di legittimità, invece, il diverso oggetto del trasferimento (costituito, in un caso, dalla partecipazione sociale e, nell’altro, dall’azienda quale compendio di beni organizzato per l’esercizio dell’impresa ai sensi dell’art. 2555 c.c.), nonché la diversa disciplina cui sono sottoposti, anche mediante la previsione di istituti dedicati e caratterizzanti (la successione nei debiti crediti, la responsabilità per i debiti aziendali, il divieto di concorrenza, il trasferimento delle posizioni lavorative, etc..) “…. bastano a denotare la giuridica non assimilabilità, ex art. 20, della cessione aziendale a quella della partecipazione sociale, per quanto totalitaria; quest’ultima attributiva non di un compendio organizzato, quanto di un vero e proprio status (di socio) e del resto assoggettata ex lege ad imposta di registro in misura fissa (art. 11 Tariffa, parte I all. DPR n. 131/86) anche in ragione di vincoli unionali”.
Va da sé che il principio sancito, ancora una volta, dalla Cassazione non può non essere esteso anche ad altre fattispecie, come nelle riqualificazioni (sempre più rare) delle “cessioni di partecipazioni” nelle “cessioni degli immobili” in “pancia” alle società vendute.
Per concludere, la riqualificazione di uno share deal in asset deal non è più contestabile da parte dell’A.d.E. – salvo rarissime eccezioni di certo non fisiologiche – invocando teorizzate condotte riconducibili al c.d. “abuso del diritto” ex art. 10-bis della L. 212/2000, atteso che è la stessa norma a cristallizzare il principio che l’abuso del diritto tributario non è l’abuso dell’autonomia negoziale e delle forme giuridiche prescelte dalle parti con riferimento ad una data fattispecie contrattuale. A tal riguardo, si legge in modo inequivocabile al comma 4 dell’art. 10-bis della L. 212/2000, va ricordato che “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.