Roma, 24 Ottobre 2019
Nell’ordinanza n. 27129/2019 la suprema Corte smentisce un suo precedente orientamento, con il quale propendeva per la natura risarcitoria della caparra penitenziale e, di riflesso, per la sua imponibilità ex art. 6 e 67 del T.U.I.R., in combinato disposto tra loro.
La caparra penitenziale, prevista dall’art. 1386 c.c., come noto è l’esito di una sorta di patto negoziale con il quale una parte consegna all’altra una somma di denaro, quale corrispettivo del diritto di recesso pattuito nel contratto stipulato dalle parti stesse.
In sintesi, i giudici di legittimità sentenziano che non configura plusvalenza tassabile ai sensi degli artt. 6, comma 2, e 67 comma 1, lettere a) e b) del T.U.I.R. la caparra penitenziale trattenuta dal promittente venditore, qualora non si proceda alla stipula del contratto definitivo di compravendita immobiliare per effetto dell’esercizio del diritto di recesso da parte del promissario acquirente.
La fattispecie oggetto della causa. Tra le parti era stato stipulato un contratto preliminare avente ad oggetto la futura stipula di un contratto di compravendita immobiliare. Il contratto preliminare prevedeva la facoltà di recesso ex art. 1373 c.c., disponendo la corresponsione da parte del promissario acquirente di una somma a titolo di caparra penitenziale, somma che sarebbe stata restituita, o trattenuta in acconto, in caso di stipula del definitivo. Qualora il recesso fosse stato attivato da parte promissaria acquirente, sarebbe stata trattenuta dal promittente venditore la caparra penitenziale; al contrario, qualora il recesso fosse stato attivato da parte promissaria venditrice, questa avrebbe dovuto restituire il doppio della caparra al promissario acquirente.
Nel caso in esame, il promissario acquirente aveva effettivamente esercitato il diritto di recesso e, quindi, il contratto definitivo non era stato mai stipulato e nessun trasferimento dell’immobile era stato realizzato. Coerentemente, il promissario venditore aveva trattenuto la somma ricevuta a titolo di caparra senza dichiarare nel suo UNICO la somma. Rilevata la plusvalenza non dichiarata pari all’importo della caparra penitenziale, l’Agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento ai fini IRPEF, da cui è scaturito il contenzioso approdato in Cassazione, che ha dato quindi ragione al Contribuente negando la legittimità della richiesta dell’Agenzia.
In termini di diritto, a giudizio della Corte non è corretto affermare la natura risarcitoria della caparra penitenziale e la conseguente tassazione ex art. 6 comma 2 del T.U.I.R., a norma del quale le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento dei danni, sono considerati redditi della stessa categoria di quelli sostituiti.
Secondo i giudici di piazza Cavour, non ha natura risarcitoria la somma incassata dal promittente venditore a titolo di caparra penitenziale, atteso che si tratta del corrispettivo per il diritto di recesso attribuito al promissario acquirente e da questi esercitato, il che impedisce “di considerare la caparra incamerata come risarcimento per la perdita di proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili”.
I giudici di legittimità, che in quanto tali non hanno potuto ampliare il raggio d’azione del proprio giudicato, non hanno fatto alcuna riflessione in ordine alla possibilità di inquadrare la fattispecie della caparra penitenziale riconducendola alla diversa fattispecie di cui all’art. 67, comma 1, lettera l) del T.U.I.R. [anziché le lett. a) e b)], nella parte in cui assoggetta a tassazione i redditi derivanti dall’assunzione di “obblighi di fare, non fare o permettere”, ma di ciò non si è potuta occupare la Cassazione !