La vendita amatoriale e non professionale di “opere d’arte” non integra, in linea generale, reddito d’impresa da assoggettare ad IRPEF.

Roma, 19 Novembre 2018

Al di là di disquisizioni di stampo dottrinale, alcuni interessanti spunti di riflessione sulla materia sono offerti da una recente sentenza della CTR del Piemonte (sentenza n. 1412/3/18), che per la specifica fattispecie conferma, tra l’altro, la sentenza dei loro colleghi della Commissione Provinciale di Torino.

A favore dell’esclusione dal reddito d’impresa ha pesato anche il lungo periodo di possesso delle opere d’arte da parte del proprietario legittimo, anche se il fattore tempo non è un parametro determinante ai fini dell’assoggettamento o meno a tassazione della plusvalenza realizzata sulla vendita di un’opera d’arte.

In estrema sintesi, secondo i Giudici di Torino, “…..un conto è la dismissione di opere d’arte, nel caso in specie avvenuta in modo massiccio molto tempo dopo le relative acquisizioni, da parte del collezionista proprietario, altra cosa è lo svolgimento di un’attività imprenditoriale nell’ambito della compravendita di opere d’arte”.

La “evanescenza” dei confini tra coloro che operano nel mercato dell’arte, determina non poche criticità sotto il profilo dell’imposizione, sia diretta sia IVA, poiché è spesso difficile distinguere tra soggetti professionali, mercanti d’arte, amatori e appassionati dell’arte, artisti o proprietari di opere, diversi dagli autori che vendono i propri lavori attraverso mezzi eterogenei od operatori professionali, come gallerie d’arte e case d’asta.

Una premessa va fatta in termini di diritto e norme scritte, atteso che mentre prima dell’introduzione del vigente Testo Unico delle Imposte sui Redditi (T.U.I.R., del 1986), vi era uno specifico riferimento alla tassazione dei redditi derivanti dalla compravendita di opere d’arte al di fuori dell’attività d’impresa (ergo, compravendita occasionalmente svolta da “amatori e collezionisti privati”), oggi questo riferimento manca del tutto, il che qualcosa vorrà dire non potendosi pensare ad una “svista” del Legislatore del 1986. All’epoca l’art. 76 dell’abrogato DPR n. 597/1973, nell’assoggettare a tassazione tutte le plusvalenze conseguite mediante operazioni poste in essere con fini speculativi e non rientranti fra i redditi d’impresa, si preoccupava di precisare che si consideravano “in ogni caso fatti con fini speculativi, senza possibilità di prova contraria: …… l’acquisto e la vendita di oggetti d’arte, di antiquariato o in genere da collezione, se il periodo di tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita non è superiore a due anni”, con ciò a voler sottolineare l’assoggettabilità a tassazione di una molteplicità di attività speculative, anche se svolte occasionalmente da privati. Questa norma non esiste più, da oltre 30 anni, nel nostro ordinamento tributario.

In questa “zona grigia” del commercio di opere d’arte, in cui si muovono anche figure non professionali (il collezionista privato come l’amatore e speculatore occasionale), è naturale l’attenzione dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza, chiamate a valutare l’elemento soggettivo sottostante le vendita dell’opera d’arte, in relazione al quale spesse volte la discriminante è anche la durata del possesso della stessa da parte del proprietario.

La sentenza n. 1412/2018 della C.T. Reg. Piemonte, ha confermato l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato al Contribuente nel quale gli si contestava un presunto reddito d’impresa non dichiarato, frutto della cessione di molte opere d’arte, particolarmente significativa in termini sia di quantità di opere che di somme percepite.

Come anzidetto, la CTR, al di là di altri elementi della fattispecie, ha ritenuto dirimente che la dismissione di opere d’arte da parte del Contribuente sia “avvenuta in modo massiccio molto tempo dopo le relative acquisizioni, da parte del collezionista proprietario”. Ma i Giudici vanno oltre, precisando che “la dedizione nel tempo alla creazione e al mantenimento della propria collezione e l’esperienza via via accumulata in materia artistica, non integrano la ripetizione di atti di commercio tipica dell’esercente professionale di un’attività imprenditoriale”.

In termini di diritto, la CTR del Piemonte ha sottolineato che nella fattispecie non sono configurabili gli elementi dell’“abitualità” e della “professionalità” che devono, invece, supportare l’effetto impositivo.

A tal riguardo si rammenta sommariamente che: 1) l’art. 55 del T.U.I.R. prevede che costituiscono redditi d’impresa quelli derivanti dall’“esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. […] anche se non organizzate in forma di impresa”; 2) la stessa Suprema Corte di Cassazione ritiene che la nozione tributaristica dell’esercizio di impresa non coincida con quella civilistica, per cui detto art. 55 deve intendersi riferito all’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma d’impresa, e prescinde, quindi, dal requisito organizzativo, elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici.

Ciò detto, va rimarcato che l’assenza di abitualità non è elemento sufficiente a esentare i redditi prodotti da ogni tassazione, in quanto l’art. 67 del T.U.I.R. prevede che siano tassati come redditi diversi anche alcuni proventi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente, per cui la “speculazione occasionale”, talvolta, può essere assoggettata a tassazione.

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